lunedì 5 settembre 2011


IL SOZZO IN CASA NOSTRA

E’ bello pensarsi e sentirsi puliti, eticamente corretti, diversi dagli altri, “quelli dall’altra parte”, che mestano, rubano, corrompono e si prostituiscono. Ma è amaro risvegliarsi un giorno e capire che lo sporco può essere a casa nostra, aver invaso il nostro territorio, inquinato l’anima e la coscienza dei giusti. Ma lo siamo?

E’ chiaro che sto parlando del caso Penati e delle sue conseguenze sull’immagine del PD, il maggior partito dell’opposizione alla destra al Governo e, secondo Amoproust e secondo tanti ma tanti militanti e simpatizzanti, una forte diga contro la malapolitica, la corruzione e i mercimonio delle Istituzioni.
Fa male al cuore e all’anima vedere certi titoli sui giornali, è difficile rassegnarsi a che tutto ciò sia veramente successo, ci si interroga sul cosa fare. Ci si consola pensando al comportamento radicalmente diverso di Penati dagli altri inquisiti della parte opposta: nessun indignazione verso i magistrati, dimissioni dalle cariche ricoperte, rinuncia (se sarà il caso) alla prescrizione. Ma è una magra consolazione.
Amoproust vuol fare un ragionamento semplice e lineare, sillogistico, inattaccabile.
Prima ipotesi: Penati è innocente, è stato incastrato, lo hanno raggirato, per vendetta personale (gli appalti negati, i favori richiesti e non accolti) e uso politico della calunnia.
Che peso e senso ha questa ipotesi? Molto debole. Primo perché l’accusa viene da magistrati e non si vede che interesse abbiano dei PM a incastrare un uomo politico. Se agiscono, lo fanno sulla base di riscontri documenti, prove. Secondo perché, in questo caso Penati dovrebbe avere gioco facile nel dimostrare la sua innocenza: l’assenza di conti all’estero, di beni rifugio in Italia, di compromissioni con la cricca degli appalti. Ma, ahimé Penati non sembra in grado di dichiarare la sua completa estraneità. Se lo è, per prima cosa lo dovrebbe fare di fronte al partito, consegnandosi “nudo” alle necessarie verifiche fiscali, bancarie e amministrative.  Non mi sembra che sia successo e che le cose si siano del tutto chiarite.
Seconda ipotesi (polarmente opposta): Penati è una mela marcia. Ha fatto ciò di cui viene accusato per arricchirsi. Lo ha fatto approfittando delle sue poltrone di Sindaco di Sesto e di Presidente della Provincia di Milano. Lo ha fatto da solo, senza alcuna collaborazione o implicazione di altri del Partito, soprattutto. Ipotesi strabiliante in quanto la natura ladresca e furfantesca di un uomo la si vede da lontano e sembra lunare l’ipotesi che uno possa tessere una tela simile di corruzioni, tangenti, concussioni da solo, senza che altri ne vengano a conoscenza. Almeno qualche complice ci deve essere. E poi il furfante che ruba, si arricchisce personalmente e non è difficile ricostruire oggi flussi di denaro e  di ricchezza personale, in Italia e all’estero. Case, ricchezza mobiliare, azioni, fondi, beni rifugio. Ma non sembra che Penati sia un nuovo re Mida.
Terza ipotesi (la più inquietante, dolorosa): Penati si è trovato invischiato in una rete di ricatti incrociati, di interessi, di richieste di complicità, di scambi di favori tra imprenditori, politicanti, faccendieri. Non ha avuto il coraggio di tagliare con nettezza, di farsi inimicizie comunque pericolose, ha avuto paura, ha ceduto ai ricatti e al progetto di potere, non ha avuto uno scatto di orgoglio, ha preferito tacere e lucrare quanto ha potuto, coinvolgendo gli interessi del partito, di chi aveva bisogno di finanziamenti occulti per la sua carriera o di chi pensa  a ingrassare le casse (i partiti, si sa, a destra e a sinistra, sono voraci di soldi, la politica costa); ha pensato che era meglio cavalcare l’onda corruttiva piuttosto che denunciarla e tirarsene fuori. Alla fine si è trovato con le mani legate, sporche, in un pantano indefinibile in cui troppi sapevano e troppi avrebbero potuto rovinarlo. Ha sperato nel silenzio e nella complicità di chi aveva bonificato. Finché il tappo è saltato, i danneggiati da quegli affari poco puliti si sono ribellati e hanno cominciato a parlare.
In questa ipotesi nel Partito sicuramente molti sapevano qualcosa, pochi tanto. A tutt’oggi non sono venuti fuori. Che segnale è? Nel Partito quanto si sapeva e chi sapeva, quanto è stato ha nascosto e quanto il Partito ha guadagnato, con quale consapevolezza e in che forma di illecito? A quali livelli gerarchici e perché?  Perché non ci sono state reazioni di rigetto? La rete di complicità, se c’è stata, deve emergere e deve essere fortemente contrastata e condannata, qui, oggi, subito.  Doloroso quanto si voglia, ma la pulizia deve essere fatta. Non è corretto che si faccia finta che il solo Penati era la mela marcia. E se queste ipotesi sono solo fantasie lo si dichiari e lo si dimostri. Niente deve rimanere nella vaghezza e nell’indeterminatezza del sospetto.
In ogni caso Penati deve parlare, deve onestamente dire ciò che è avvenuto e il Partito deve dimostrare la disponibilità piena a amputare i rami secchi e disinfettare, ripulire, dolorando, le piaghe purulenti del malaffare. Non è pensabile di salvare chicchessia, se corrotto, né al vertice né alla base. Non esiste “bene del Partito” che giustifichi comportamenti illeciti.
Si spera sempre, fino alla fine, nell’innocenza e nella buona fede. La magistratura appuri ciò che deve appurare e il Partito appoggi senza riserve un’opera di trasparenza e di rinnovamento.
Solo così il PD potrà aspirare a costituire una seria alternativa di Governo, senza zone d’ombra e chiaroscuri.
Lo vogliono gli elettori, lo chiede la parte sana del Paese.

Amoproust, 4 settembre 2011.

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