mercoledì 29 marzo 2017

Quid est veritas?

Quid est veritas?

Ė la domanda un po’ retorica, un po’ provocatoria, un po’ insolente lanciata da Pilato a Gesù, durante il processo farsa (Vangelo di san Giovanni 18/38).

Pilato, questa figura denigrata nei secoli, definito vigliacco, codardo, cinico. In effetti Pilato faceva il suo dovere: non voleva processare un “giusto” ma non poteva neppure esporre la sua procura a un’ennesima rivolta dei giudei, intolleranti del dominio di Roma. Affidando Gesù alla giustizia giudea del Sinedrio ”se ne lavava le mani”, espressione che indica lo scaricabarile ma anche la volontà di non macchiarsi del sangue di un innocente, com’era Gesù. “Se la vedano fra di loro, Roma non c’entra, non vuole immischiarsi in queste beghe tra sette religiose”.

La politica di Roma era questa: ottenere obbedienza alle leggi romane, sudditanza ma lasciare che i popoli sottomessi seguissero  la loro religione, adorassero i loro dei. Come poteva l’Impero Romano valutare e giudicare? I giudei erano particolarmente riottosi, ribelli. Nel loro orgoglio di essere il popolo eletto volevano essere riconosciuti come gli adoratori del vero Dio. Appunto per questo Pilato grida “Quid est veritas?” - dov’è la verità. Cos’è?  Echi forse di una scuola filosofica scettica. Pilato doveva essere un uomo colto, di origine italiana, famiglia dei Ponzi, nel Sannio. La storia dice che i Samaritani lo misero nei guai per cui fu convocato a Roma dall’imperatore. Poi di lui si perdono le tracce (Giuseppe Flavio). Gesù non risponde perché l’incalzare degli avvenimenti porta Pilato davanti ai Giudei a proclamare “io non trovo in lui nessun motivo di condanna” e - di seguito - al tragico cinico scambio con Barabba.

Ma la sua domanda rimane, rimbomba nella storia, nella coscienza degli uomini.

La verità inquieta, sollecita, muove filosofi  e pensatori alla sua ricerca. Ma nessuno sembra in grado di trovarla, perché la ragione umana è impotente  a raggiungere la verità.

Gli uomini raggiungono la verità o dicono di raggiungerla mediante la fede o mediante strumenti di affidamento e di appartenenza. La verità è quella della propria religione e della propria cultura, è quella tramandata di padre in figlio, non si discute. Così è in tutte le culture, cristiane e non, musulmane, ebraiche, buddiste o animiste. Si nasce in una cultura e si crede. Tutti attorno a te dicono e fanno così, ti insegnano così. Sei incanalato. Le conversioni sono un’eccezione e oggi nessuno le persegue più.

Se alziamo lo sguardo e guardiamo all’umanità vediamo dei grandi cluster (insiemi) culturali, tutti orientati a difendere la “propria verità”. Oggi non è proprio più così, in quanto la secolarizzazione ha prodotto indifferenza e agnosticismo. Apparteniamo, pratichiamo almeno in qualche occasione rituale, ma non ci interessa più. I veri fedeli sono una minoranza (in tutte le culture, più o meno) e la fede, la religione è ridotta a liturgia, rito, talvolta solo folclore. Non ci interessa più la verità perché tutti intenti a creare benessere nel migliore dei casi, sopravvivenza molto spesso.

Se allarghiamo la visuale sempre in cerca della verità possiamo trovare una soluzione filosofica facile, ma incongruente. Creiamo il cluster del relativismo nel quale affermare che la verità è relativa, non assoluta. Ma se affidiamo a questo concetto la soluzione del problema creiamo di nuovo un assoluto: quello della relatività assoluta della verità. Un bel pasticcio.

Non c’è soluzione razionale al problema. Dobbiamo arretrare e  riconoscere che la verità è inconoscibile. Ciascuno, nella sua cultura ha la sua. Ma se mette il becco fuori ne trova molte altre, difese con altrettanta vigoria.

Ai fini della coesistenza pacifica delle culture non c’è che il riconoscimento della reciproca legittimità delle fedi e delle religioni. L’integralismo sta proprio in questo: ritenere di possedere l’unica verità possibile  e negare che altri abbiano altre fedi e altre credenze.

Ma si crea un paradosso: se io penso e agisco in base alla mia fede, credo di essere nel giusto. Come posso solo “pensare” che esista un’altra fede, un’altra strada? Se così fosse, allora potrei sbagliarmi, potrei essere in errore. Ogni credo presuppone un atto di fede “assoluto”, cieco. Un bel guaio.

Da qui all’intolleranza, alla guerra di religione, al fanatismo il passo è breve.

L’uomo è sdoppiato: se si affida alla ragione non ha scampo, nessun approdo realistico a qualsiasi tipo di verità metafisica. Se si affida alla fede è una strada cieca, appunto di affidamento. Non discute, non si confronta, non mette in dubbio.

Eppure il dubbio è il motore della ricerca della verità.

La soluzione del dilemma sembra duplice:  a livello teorico e a livello pratico, morale.

A livello teorico l’uomo deve continuare  a indagare. Il suo compito-obbiettivo è quello di esplorare, ricercare. Dall’inizio della sua specie l’homo sapiens ha prodotto ricerca filosofica e  non può fermarsi. Come Ulisse di fronte all’Oceano al di là delle colonne d’Ercole.

A livello pratico ancora una volta Kant, il grande illuminista, ci sostiene. Le morali sono molteplici ma l’imperativo categorico è “non fare danno”. “Considera l’uomo sempre come fine e non come mezzo” e “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto  a te”.

Se l’uomo avesse da sempre seguito queste linee guida di comportamento avremmo evitato stragi, guerre e intolleranze.

Purtroppo non è stato così e ancora oggi non lo è.

Amoproust, 30 marzo 2017.


domenica 26 marzo 2017

religione e teatralità

Religione e teatralità

Milano ha celebrato la sua giornata con papa Francesco, giornata di commoventi incontri e soprattutto di grandi scenografie. A Monza per la celebrazione liturgica della Messa si è dato vita a un palcoscenico di una grandiosità mai vista e a San Siro, per l’incontro con i cresimandi le coreografiche create dai ragazzi degli oratori non hanno avuto nulla da invidiare alle inaugurazione delle Olimpiadi (dati i mezzi a disposizione!). Il dialogo di papa Francesco con i ragazzi è stato commovente e ricco di inflessioni pedagogiche.

Questo papa per la sua predicazione, la rivoluzione introdotta nella Chiesa, la sua attenzione ai poveri e agli ultimi, la sua predilezione per la parola “misericordia”, merita rispetto e attenzione anche da parte del mondo laico. E’ rimasta quasi l’unica voce in Europa a parlare di unità e di solidarietà e solo per questo si profila come un grande, un gigante della storia.

Ma mi pongo un problema. Ce l’ho dentro, lo sento e devo dirlo. Fino  a che punto la predicazione evangelica della povertà e dell’umiltà, la scelta di un profilo modesto da parte di Francesco stesso (la rinuncia all’appartamento papale, per esempio, i pasti in comune a Santa Marta) si concilia con queste manifestazioni gigantesche, scenografie luccicanti, folle oceaniche esultanti e osannanti? Gesù è entrato in Gerusalemme a cavallo di un asinello e vi è entrato per andare al macello. Non è che mi auguri questo per il papa, s’intende, ma pongo un confronto.

Lo vuole Lui o glielo impongono?

Certamente la predicazione del messaggio vuole la forza del mezzo. Ma oggi i mezzi di annuncio della Parola sono molteplici e non presuppongono la presenza fisica. Si arriva ovunque nel globo con i media moderni. Mi domando anche: è umano chiedere a un anziano di 81 anni queste performances micidiali solo per accontentare il feticismo delle folle? Io dico di no. E’ meglio che questo Papa viva a lungo e continui nella sua riforma della Chiesa che è tutt’altro che compiuta. Anzi di strada verso la modernizzazione (che è il contrario della mondanità) e verso l’autenticità della coerenza ce n’è molta da fare. Vita lunga a Francesco.

La spettacolarizzazione dell’annuncio è iniziata con papa Wojtyla, incessante viaggiatore per il vangelo ed è proseguita in sordina con Papa Ratzinger. Prima non esisteva: Pio XII non è uscito quasi mai dal Vaticano, Paolo VI ha fatto viaggi simbolici, in Terrasanta per esempio. Ma le folle oceaniche sono state volute da papa Giovanni Paolo II, che proponeva se stesso, la Sua persona come testimone della Fede. Tutto questo è servito a espandere l’Evangelo nel mondo ? Ho i miei dubbi: la civiltà si è sempre più secolarizzata, se una religione ha acquisito fedeli questa è l’Islam.

Non vogliatemene. Ma è semplice. Perché l’Islam nei suoi fedeli di base ha manifestato coerenza. I precetti dell’Islam sono semplici: Ramadam, la preghiera rituale, l’elemosina, la visita a La Mecca se puoi… e i musulmani sono osservanti più dei cristiani. E’ una constatazione.

In folla andiamo ad applaudire il papa, ma Messa ci va una minoranza esigua, nessuno più osserva digiuni e quaresime, prime comunioni e cresime sono occasioni mondane di dimostrazione del benessere della famiglia, la ricchezza è una meta, la povertà una condanna, i sacramenti sono dimenticati. Effetto della secolarizzazione certo ma anche, non diciamo di no, disaffezione e riduzione della religione a qualcosa di rituale, di esteriore. Sinceramente il popolo cristiano non crede più, recita il Credo senza sapere ciò che dice.

Mi direte: è vero ma la sostanza del Cristianesimo è un’altra: è l’osservanza del vangelo, dei precetti della Carità, delle opere di misericordia. D’accordo ma è proprio questo che sta “gridando” Francesco con tutta la sua forza: la Chiesa come apparato potrà anche morire, sparire ma il messaggio di pace  e di solidarietà del Vangelo deve rimanere scolpito nella coscienza degli uomini.
Questo è il suo messaggio. Diretto  a tutti, cristiani e non.

Io credo che papa Francesco viva con molto fastidio ciò che il uso ruolo e il “cerimoniale codificato” gli impongono. Già il Papato saggiamente  ha rinunciato alla Tiara, alla sedia gestatoria, ha introdotto nella liturgia le lingue nazionali. Mentre papa Ratzinger amava portare il camauro (antiquatissimo copricapo) e le scarpette rosse, Papa Francesco indossa le gesuitiche scarpe nere, non porta mantelle rosse, si limita alla veste talare bianca che lo rende riconoscibile e basta. Sono simboli, scelte però significative che indicano una lontananza psicologica da orpelli e sovrastrutture, da “cose” indicative di una sovranità terrena da cui si tiene distante.

Per questo vedo una contraddizione tra la sua presenza e imponenti scenografie da “potente” del mondo. Lasciamole a Kim on-Jung , alla nomenclatura ex sovietica e trumpista, a Hollywood e ai premi Oscar.  Chi le ha progettate e costruite ha manifestato una mentalità “divistica” impropria. Uno che si chiama Francesco ama i suoi fedeli ma non credo che ami essere celebrato come un divo. E’ certamente riconoscente alla manifestazione d’affetto ma ciò che lui desidera è il dialogo e la vicinanza. 

Lo dice lui stesso che Dio è uno solo. Uno!


Amoproust, 26 marzo 2017.

mercoledì 22 marzo 2017

Rockefeller

E’ morto David Rockefeller

E’ un notizia? "No", perché migliaia di uomini muoiono ogni giorno sul pianeta, molti in condizioni disumane per guerre, epidemie, carestie. I più fortunati nel proprio letto assistiti dai familiari. La morte è la grande democratica uguagliatrice, nessuno sfugge.  Ma anche "sì": Rockefeller è uno di quegli uomini che con la sua famiglia ha fatto la storia economica e finanziaria del mondo. Non uno qualsiasi, insomma.

Di fronte alla ricchezza spropositata posseduta da pochi (e Rockefeller era tra questi) si rimane basiti. Viene spontaneo chiedersi: e se tale ricchezza fosse distribuita? La risposta è ambigua. Forse andrebbe inutilmente dispersa, forse pochi ne saprebbero fare buon uso. Ma che uso ne hanno fatto i Rockefeller?
Si parla di loro come munifici mecenati ma anche come spietati speculatori e sostenitori dei Paradisi fiscali. Forse se non avessero speculato, non avrebbero potuto essere munifici.

In linea di principio legalmente il diritto alla proprietà privata autorizza al possesso infinito di beni. In un mondo globalizzato dove la disuguaglianza planetaria si svela nella sua tragica dimensione,  la proprietà privata “assoluta” cioè libera da vincoli sociali appare come una grave ingiustizia, una prevaricazione, uno sberleffo alla povertà dei molti. Che occorra fare qualcosa, intervenire, limitare è indubbio. Ma come?

Ponendo alcuni paletti “etici” che nulla hanno a che fare con l’esproprio e il comunismo. 

Il primo paletto o principio etico è la ricchezza utile: cioè la ricchezza che viene investita per creare altra ricchezza, per dare lavoro e prosperità alla comunità. Il ricco che si fa imprenditore rischiando e ottenendo il giusto profitto. Non c’è scampo a questa regola.

Il secondo paletto è la moderazione: l’accumulo di ricchezza oltre un certo limite ha qualcosa di immorale. La ricchezza spropositata (l’icona di Paperon de’ Paperoni), talvolta anche esibita e sfrontata non si ottiene di solito con un comportamento morale. Ma attraverso la sopraffazione, l’evasione, la corruzione, come nella storia è successo con certi dittatori o sultani o semplicemente capitalisti. Questa ricchezza ingiustamente accumulata va condannata e repressa. Gli Stati democratici hanno diritto di chiedere trasparenza e certezza del diritto. La proprietà non può essere un abuso.

Un terzo paletto (sul quale molti non saranno d’accordo ma che per me è sacrosanto) è l’indebita gratuità. Ossia il possesso della ricchezza ereditato senza alcun merito o impegno personale. Non parlo della giusta eredità della normale ricchezza in beni mobili e immobili che passa da padre a figlio e che costituisce l’asse patrimoniale della famiglia. Parlo delle cospicue immense eredità  ricevute in dote e sulle quali la comunità ha diritto di intervenire chiedendo una contribuzione elevata in termini successori. La comunità ha il diritto-dovere di distribuire la ricchezza e la leva fiscale è una modalità per togliere a chi ha troppo e dare a chi nulla possiede. Nessun esproprio ma un normale buonsenso: “Ti lascio ciò che può servirti per vivere agiatamente molti anni e investire, ma ti tolgo ciò che è superfluo, in sovrappiù, perché devo tutelare i più deboli”.

L’occidente borghese, dalla Rivoluzione francese in poi ha costruito la sacralità della proprietà privata, intoccabile. Il moderno welfare non può tollerare disparità immense. Se il mondo capitalista vuol sopravvivere deve fare i conti con un nuovo concetto di proprietà. Non un recinto chiuso inaccessibile agli altri, ma una dotazione di beni messi in comune per il benessere collettivo.


Amoproust, 22 marzo 2017

sabato 11 marzo 2017

Cupio dissolvi

Un pensierino  mite mentre al Lingotto si svolge l’ennesima fiera delle vanità. Si progetta il futuro ma è un futuro dejà vu, sostanzialmente un passato. I tempi finiscono per tutti, oggi più in fretta di ieri. Nessuno è eterno e nessuno può resistere alla forza demolitrice del  tempo che passa. Dal  40% di Renzi alle europee del 2014 sembra passato un secolo. Un patrimonio elettorale e di consenso è stato sperperato, disperso. Il PD non è più lo stesso, sfiancato da polemiche e correnti, smarrito, senza ideali e senza obbiettivi concreti. Una scissione stupida e inutile lo ha indebolito, il Congresso non lo farà risorgere.

Soprattutto quando qualcuno non capisce che il suo tempo è finito, per errori, ambizioni, incapacità gestionale, fiducia smodata in se stessi. Non ci sarà un Renzi 2 dopo la prima era Renzi, anche se Renzi vincerà il congresso. Il buon senso gli suggeriva di ritirarsi, lasciare. Nessuno è necessario, anzi in qualche caso può essere nocivo.  Quali previsioni possiamo fare?

Scenario 1. Renzi vince il congresso, ridiventa segretario del PD. Come tale concorre alla leadership del paese. Non sappiamo quale legge elettorale ci sarà, ma con ogni probabilità un proporzionale corretto. Ma per governare Renzi (nella ipotesi che sia il primo partito, non del tutto sicura) dovrà fare alleanze. Con chi? Con una parte del CD. Probabile. Inciucino e niente di nuovo. Tutto come prima. Dejà vu.

Scenario 2. Orlando riesce a catalizzare le forze contrarie a Renzi nel PD e a imporsi come segretario. Comincia un’era nuova, ma il PD ne esce indebolito. Quanti voti potrà avere un partito così rinnovato? Troppe delusioni, forti defezioni, gli esuli non rientrano, il Centro sinistra è a brandelli. Alla competizione elettorale con un centro sinistra a brandelli e una centro destra inesistente (a proposito ce lo vedete un Berlusconi al potere; altro che dejà vu!) il M5S stravince. Sapranno governare e con chi si alleeranno? Con Salvini? Con la sinistra? Nubi fosche sull’Italia e sull’Europa.

Un terzo scenario sarebbe possibile. Che le forze politiche si alleino, portate dal buon senso a fare una legge  elettorale, tale da garantire rappresentanza e governabilità a lungo.  Che prevalga una volta su tutte il senso del bene del Paese. Chi vince governi e porti a soluzione problemi ormai incancreniti. Non è successo finora, non lo si farà sull’onda dei personalismi di partito. 

Per salvare l’Italia occorre solo buon senso. Ma non se ne vede in giro: merce rara. Il cupio dissolvi domina ovunque, coscientemente o no. 

L’uomo forte trama nell’ombra? Tutto può essere, anche la fine della democrazia.


Amoproust, 11 marzo 2017.