Quid est veritas?
Ė la domanda un po’ retorica, un po’
provocatoria, un po’ insolente lanciata da Pilato a Gesù, durante il processo
farsa (Vangelo di san Giovanni 18/38).
Pilato, questa figura denigrata nei
secoli, definito vigliacco, codardo, cinico. In effetti Pilato faceva il suo
dovere: non voleva processare un “giusto” ma non poteva neppure esporre la sua
procura a un’ennesima rivolta dei giudei, intolleranti del dominio di Roma.
Affidando Gesù alla giustizia giudea del Sinedrio ”se ne lavava le mani”,
espressione che indica lo scaricabarile ma anche la volontà di non macchiarsi
del sangue di un innocente, com’era Gesù. “Se la vedano fra di loro, Roma non
c’entra, non vuole immischiarsi in queste beghe tra sette religiose”.
La politica di Roma era questa:
ottenere obbedienza alle leggi romane, sudditanza ma lasciare che i popoli
sottomessi seguissero la loro religione,
adorassero i loro dei. Come poteva l’Impero Romano valutare e giudicare? I
giudei erano particolarmente riottosi, ribelli. Nel loro orgoglio di essere il
popolo eletto volevano essere riconosciuti come gli adoratori del vero Dio. Appunto
per questo Pilato grida “Quid est veritas?” - dov’è la verità. Cos’è? Echi forse di una scuola filosofica scettica.
Pilato doveva essere un uomo colto, di origine italiana, famiglia dei Ponzi,
nel Sannio. La storia dice che i Samaritani lo misero nei guai per cui fu
convocato a Roma dall’imperatore. Poi di lui si perdono le tracce (Giuseppe
Flavio). Gesù non risponde perché l’incalzare degli avvenimenti porta Pilato
davanti ai Giudei a proclamare “io non trovo in lui nessun motivo di condanna”
e - di seguito - al tragico cinico scambio con Barabba.
Ma la sua domanda rimane, rimbomba
nella storia, nella coscienza degli uomini.
La verità inquieta, sollecita,
muove filosofi e pensatori alla sua
ricerca. Ma nessuno sembra in grado di trovarla, perché la ragione umana è
impotente a raggiungere la verità.
Gli uomini raggiungono la verità o
dicono di raggiungerla mediante la fede o mediante strumenti di affidamento e
di appartenenza. La verità è quella della propria religione e della propria
cultura, è quella tramandata di padre in figlio, non si discute. Così è in
tutte le culture, cristiane e non, musulmane, ebraiche, buddiste o animiste. Si
nasce in una cultura e si crede. Tutti attorno a te dicono e fanno così, ti
insegnano così. Sei incanalato. Le conversioni sono un’eccezione e oggi nessuno
le persegue più.
Se alziamo lo sguardo e guardiamo
all’umanità vediamo dei grandi cluster (insiemi) culturali, tutti orientati a
difendere la “propria verità”. Oggi non è proprio più così, in quanto la
secolarizzazione ha prodotto indifferenza e agnosticismo. Apparteniamo,
pratichiamo almeno in qualche occasione rituale, ma non ci interessa più. I
veri fedeli sono una minoranza (in tutte le culture, più o meno) e la fede, la
religione è ridotta a liturgia, rito, talvolta solo folclore. Non ci interessa più la verità perché tutti intenti a creare benessere nel migliore dei casi, sopravvivenza molto spesso.
Se allarghiamo la visuale sempre in
cerca della verità possiamo trovare una soluzione filosofica facile, ma
incongruente. Creiamo il cluster del relativismo nel quale affermare che la
verità è relativa, non assoluta. Ma se affidiamo a questo concetto la soluzione
del problema creiamo di nuovo un assoluto: quello della relatività assoluta
della verità. Un bel pasticcio.
Non c’è soluzione razionale al
problema. Dobbiamo arretrare e
riconoscere che la verità è inconoscibile. Ciascuno, nella sua cultura
ha la sua. Ma se mette il becco fuori ne trova molte altre, difese con
altrettanta vigoria.
Ai fini della coesistenza pacifica
delle culture non c’è che il riconoscimento della reciproca legittimità delle
fedi e delle religioni. L’integralismo sta proprio in questo: ritenere di
possedere l’unica verità possibile e
negare che altri abbiano altre fedi e altre credenze.
Ma si crea un paradosso: se io
penso e agisco in base alla mia fede, credo di essere nel giusto. Come posso
solo “pensare” che esista un’altra fede, un’altra strada? Se così fosse, allora
potrei sbagliarmi, potrei essere in errore. Ogni credo presuppone un atto di
fede “assoluto”, cieco. Un bel guaio.
Da qui all’intolleranza, alla
guerra di religione, al fanatismo il passo è breve.
L’uomo è sdoppiato: se si affida
alla ragione non ha scampo, nessun approdo realistico a qualsiasi tipo di
verità metafisica. Se si affida alla fede è una strada cieca, appunto di
affidamento. Non discute, non si confronta, non mette in dubbio.
Eppure il dubbio è il motore della
ricerca della verità.
La soluzione del dilemma sembra duplice: a livello teorico e a livello pratico,
morale.
A livello teorico l’uomo deve
continuare a indagare. Il suo
compito-obbiettivo è quello di esplorare, ricercare. Dall’inizio della sua
specie l’homo sapiens ha prodotto ricerca filosofica e non può fermarsi. Come Ulisse di fronte
all’Oceano al di là delle colonne d’Ercole.
A livello pratico ancora una volta
Kant, il grande illuminista, ci sostiene. Le morali sono molteplici ma
l’imperativo categorico è “non fare danno”. “Considera l’uomo sempre come fine
e non come mezzo” e “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse
fatto a te”.
Se l’uomo avesse da sempre seguito
queste linee guida di comportamento avremmo evitato stragi, guerre e
intolleranze.
Purtroppo non è stato così e ancora
oggi non lo è.
Amoproust, 30 marzo 2017.