sabato 4 febbraio 2012


Articolo 18 sì - articolo 18 no.

Probabilmente il professor Monti non avrebbe mai voluto essere tirato dentro per la manica della giacca, come si dice, nel dibattito relativo all’art.18. Ma è cosa vecchia, forse anche un po’ scontata. Quando si tratta di mercato del lavoro, i sindacati si arroccano (anche a ragione - l'esperienza insegna a essere prudenti) e alzano le orecchie che fischiano… si vogliono toccare i diritti dei lavoratori. E torna in ballo l’art. 18.

Forse un po’ di calma e di pacato ragionamento non guasterebbe. Il problema non è l’art.18, che peraltro riguarda solo una platea ristretta di lavoratori, quelli delle grandi aziende (e in Italia il 90% delle aziende sono medie o piccole) e solo per problemi di giusta causa. Cioè l’azienda può licenziare e lo vediamo tutti i giorni per le cause più disparate (e la riduzione del personale per motivi economici è tra queste) – non può farlo per una causa ingiusta. Cioè (a questo si pensava in sede di stesura dello Statuto dei lavoratori) per motivi politico/ideologici o sindacali o di discriminazione qualsiasi. Se ti licenzio perché sei gay è una causa ingiusta e – a norma dell’art. 18 – il giudice ti reintegra nel posto di lavoro. Ma questo non vale per le medie/piccole aziende per cui se un gay è licenziato da una media e piccola azienda amen, nessuno può dire nulla! E’ serietà e giustizia questa?

Insomma per esser equanimi e ragionevoli occorre:
  • unificare i diritti dei lavoratori qualsiasi contratto abbiano e qualsiasi sia la dimensione dell’azienda (semmai quindi allargare la protezione e non restringerla se si parla di discriminazione)
  • ridurre le tipologie di contratto ed eliminare i contratti che creano precariato e non sono tutelati come il posto a tempo indeterminato
  • se l’azienda può licenziare in caso di crisi o di ristrutturazione o di importanti ragioni economiche – i lavoratori debbono essere tutelati con formule ponte che li traghettino verso altri posti di lavoro (si chiamino pierino o pippo poco importa)
  • creare le condizioni economiche perché il lavoro ci sia e cresca e si aprano nuove imprese che assumono: attrarre investimenti è importante sia all’interno che dall’estero.
Ora mi pare, da quel che si legge, che Monti e Fornero queste cose le abbiano ben chiare e che non intendano affatto fare stragi di posti di lavoro, ma semmai creare un mercato diverso, più mobile, più elastico dove, se uno perde un posto ne trova un altro perché il mercato è ricco di offerte. Vedi la Germania. Ci vuol tempo per questo, è vero, ora c’è la crisi e le aziende chiudono, è giusto creare tutele, ma occorre anche pensare al futuro e ai giovani e a combattere la loro precarietà.

I sindacati protestano: è il loro mestiere. Ma forse non è che sono anche un po’ conservatori e sulle difensive, per nulla fiduciosi, diffidenti, poco aperti a innovazioni? Non lo so, i sindacati Amoproust li rispetta, avranno le loro ragioni. Ma è pur vero che significative proposte di riforma del mercato del lavoro (leggi Ichino) sono sempre state bollate come pericolose o di destra.

Purtroppo questa squadra di governo qualche frase infelice se l’è lasciata scappare come quella del sottosegretario Martone che ha definito sfigati coloro che si laureano a 28 anni, senza ben distinguere; come lo stesso Monti che ha definito “noioso” il posto fisso (lo vada a dire a chi l’ha perso). Noioso e ben di più è essere senza lavoro, è rimanere a casa senza prospettive, è esser precari per anni  e anni senza speranza di poter fare una vita normale (una famiglia, una casa, un mutuo). Forse è infelice parlare di noia quando impera la disoccupazione e si deve tirare la cinghia. Certo è bellissimo saltare da un posto all’altro, fare diverse esperienze lavorative, crescere, cambiare. Ma solo un mercato aperto e in marcia lo può permettere.

Io mi sono laureato, guarda un po’, proprio a 28 anni ma dopo aver perso due anni di scuola per motivi economici e mi sono laureato lavorando sempre perché mi dovevo mantenere e - quando mi sono laureato - avevo un figlio piccolo in braccio e i professori dandomi il 110 e lode, mi fecero i complimenti. Altri tempi.

Ma i figli di papà - anche oggi come allora - che tentano un esame all’anno e vivono nell’ignavia e nel disinteresse per il loro futuro, forse non si laureano mai. Il fuoricorsismo facile è una vera piaga dell’università italiana. O, anche se a trent’anni si eredita lo studio di avvocato o quello di notaio o lo studio dentistico del padre, ignoranti come becchi, veri pericoli pubblici, possiamo definire questi tipi sfigati? Direi di sì, anzi parassiti e più che bamboccioni.  
Per fortuna non è questa la condizione dei nostri giovani in maggior parte. E’ vero, va risuscitato  il merito e la pari opportunità non dovrebbe essere una pura fantasia. Ma il giovane che si dà da fare per crescere e sapere e formarsi va premiato e sorretto e incoraggiato. Speriamo.

Amoproust – 4 febbraio 2012  

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